Lo spread scolastico
EDITORIALE Ivana Summa
Lo spread, termine della lingua inglese traducibile con «differenza», «scarto» o «divario», è la differenza di rendimento tra due titoli dello stesso tipo e durata, uno dei quali è considerato un titolo di riferimento (Fonte Wikipedia). Con un azzardo quasi imperdonabile, ci chiediamo se possa esistere uno spread scolastico in grado di misurare il rendimento di un titolo dello stesso tipo e durata o meglio - come sarebbe auspicabile - uno standard in grado di fare da punto di riferimento almeno per il rilascio dei diplomi conclusivi del 2° ciclo d’istruzione che, come è noto, hanno un valore legale. A questo proposito, invito a leggere i contributi di Sacchi e Summa che affrontano, in modo molto realistico, proprio questo problema. Infatti, in mancanza dell’uno e dell’altro, si fa un gran parlare di indagini di vario tipo per classificare le scuole migliori; indagini che non hanno nulla di scientifico in quanto si limitano a fotografare la realtà, trattando allo stesso modo i tre ordini di scuola - tecnici, licei, professionali - e prescindendo dalla tipologia di studenti che li frequentano. Di fatti, i nostri studenti frequentano i diversi ordini di scuola - e questo stato di fatto è confermato da accurate indagini sociologiche le quali confermano, peraltro, che la scuola non funziona più come “ascensore sociale” - a seconda della classe sociale di appartenenza, del titolo di studio dei genitori, delle disponibilità economiche e logistiche. Già negli anni precedenti il quinquennio secondario, durante il triennio ponte tra infanzia ed adolescenza, i destini si compiono quasi inevitabilmente nonostante i riti dell’orientamento e degli open day, che si svolgono proprio in questi giorni. Tutto ciò significa che le aspirazioni, che dovrebbero emergere dalle attività di orientamento, spesso si spengono proprio durante la frequenza della scuola “media” che spesso si limita ad incanalare gli adolescenti lungo sentieri quasi obbligati.
E, a proposito di questo grado di scuola, in precario equilibrio perché non è mai riuscito a darsi una identità riconosciuta dentro e fuori, Daniele Barca, nel suo contributo, fa una riflessione che dobbiamo condividere: <<Forse una volta per tutte dovremmo decidere cosa farne di questo segmento di vita dei nostri ragazzi: 3 anni che passano in un soffio ma costruiscono la persona, forse più dei 5 precedenti e dei 5 successivi. Eppure è considerata, anche nel sentire dei genitori, ancora sostanzialmente l’anticamera delle superiori, come se non esistesse. Riconosciamo l’importanza delle elementari come scuola di base, delle superiori come preparazione all’età adulta, la media è considerata una parentesi. Un titolo di Gavosto della Fondazione Agnelli del 2018 così recitava: “Disinteressati e stressati: l’abisso della media, un ciclo di scuola da rifare”. Penso che l’abisso della “media”, con quasi 60 anni di vita, debba esistere per se stesso, completare il primo ciclo, non anticipare il secondo, lavorare su un diverso modo di insegnare, di considerare le discipline superandone le barricate, integrando digitale e reale, avviandosi anche, dopo averlo fatto con la primaria, verso una valutazione che superi il voto numerico, più allineata con la certificazione delle competenze che, il più delle volte, è un adempimento suppletivo che va ad aggiungersi in classe terza alla pagella numerica, al giudizio orientativo e alle valutazioni Invalsi>>.
E il contributo di questo dirigente scolastico è davvero rilevante perché per l’istituto comprensivo che dirige, in questi due anni di pandemia, ha colto l’occasione per riflettere non solo sulla qualità e l’efficacia dell’offerta formativa in termini di acquisizione di competenze, bensì sull’organizzazione interna del curricolo e, soprattutto, sull’identità della scuola media, senza infingimenti e senza inutili giaculatorie.
Continuando sul versante dell’innovazione bottom up, frutto della capacità di ricerca e di sperimentazione delle nostre scuole, di docenti e dirigenti scolastici che non si arrendono alle routine che facilitano il lavoro ma uccidono motivazioni e gratificazioni, richiamiamo il contributo di Michele Visentin alle prese con l’elaborazione del Curricolo d’Istituto, frutto di riflessioni che partono proprio dal profilo in uscita dello studente, per procedere a ritroso secondo la metodologia proposta da Wiggins e McTighe, avendo come obiettivo quello di puntare su comprensioni durevoli. Parte da una riflessione che è d’obbligo per i “progettisti a ritroso”: <<che cosa vale la pena imparare? Insegnare ciò che è prezioso per la vita, suggerisce David Perkins, tra i fondatori del “Progetto Zero” alla Harvard Graduate School of Education! Significa decidere gli insegnamenti che gli studenti avranno l’occasione di usare in qualche momento della loro vita privata, professionale, artistica, civile … (preziosi in questo senso). L’insegnante progettista, alla fine, progetta comprensioni durevoli... nel senso che seleziona oggetti di comprensione che permettono agli studenti di possedere un sapere al quale potranno fare riferimento lungo l’arco della loro vita. La mente, si sa, lascia andare e dimentica ciò che non usa, ciò che non “richiama”. L’insegnante progettista disegna costellazioni preziose per la vita, collegando i saperi interni alle discipline, ma soprattutto immaginando forme che nascono collegando saperi appartenenti a campi disciplinari differenti>>. Ed è proprio alla metafora della costellazione che invitiamo i nostri lettori a prendere in considerazione per la sua formidabile valenza di attrattore concettuale.
E proprio a questa rivoluzionaria metodologia si riferisce il contributo di Loredana De Simone che, forte anche della sua esperienza di formatrice come dirigente scolastica di un istituto comprensivo, riflette sulle difficoltà dei docenti di abbandonare le routine programmatorie imperanti da anni, per transitare su nuove routine. È una difficoltà notevole e comune a tutte le attività formative che chiedono delle scelte, pretendono l’abbandono della comfort zone, fatta di rassicuranti rituali. I contributi di Isabella Simone e di Marco Pellizzoni che elaborano delle Unità di Apprendimento che vanno nella direzione delle comprensioni profonde e durevoli e della loro valutazione formativa, orientata al monitoraggio dei processi di apprendimento.
Vogliamo concludere ritornando al nostro discorso iniziale: quando possiamo dire che una scuola funziona, che risponde alle sue finalità istituzionali, che fa inclusione ed equità, che forma cittadini? Quali punti di riferimento, oltre gli standard e lo spread, deve avere una scuola per operare nella giusta direzione? E tutto ciò porta a porsi almeno due domande.
La prima domanda riguarda quale sia oggi la funzione sociale della scuola in una fase di radicali cambiamenti che spesso fanno apparire minaccioso il futuro e rassicurante il passato. C’é un grande dibattito intorno a questo nodo che privilegia ora una visione del passato che resiste, ora una visione del futuro non del tutto chiara perché, come canta Francesco Gabbani nella canzone “Spazio Tempo”, il futuro fa ginnastica.
La seconda domanda pone al centro il come operare, conciliando passato e futuro, il tradizionale e il nuovo, perché nessuna pianta può nascere su un terreno incolto. Nei contributi che abbiamo citato, e non solo, la strada è l’innovazione dal basso perché il destino della scuola è nelle mani di chi insegna e di chi dirige le nostre scuole. Le riforme, da sole, non bastano. Anzi, a volte, ostacolano i cambiamenti trasformandole in adempimenti burocratici.